Love-story. Kyubei’s sentokudo clam.

Se uno inizia una collezione a 71 anni deve fare tutto piuttosto in fretta.

E accontentarsi solo di pezzi eccezionali. Altrimenti rischia che l’arbitro

fischi la fine della partita mentre lui ancora sta facendo il riscaldamento.

Questa metafora calcistica rivela di cosa mi sono occupato queste ultime

settimane. Però c’è stato un minuscolo oggetto che ha avuto la forza

di strappare molto spesso e molto a lungo la mia attenzione dal televisore.

E’ una conchiglia.

Soprattutto è un dono d’amore.

E racconta una storia d’amore.

Le lunghe ore di studio dedicate alla conchiglia sono condensate

in una pseudo-scheda pseudo-scientfica che pubblicherò in seguito.

Qui do voce alle mie emozioni.

Tutto è iniziato con una battuta del famoso comico americano, Steve Wright :

“Io ho la più grande collezione di conchiglie.

La tengo esposta sulle spiagge di tutto il mondo”.

Più che una battuta comica, l’intuizione di un genio.

Proprio a questo pensavo un giorno (quanto l’umorismo possa avvicinarsi

alle vette dell’umano pensiero) ed ecco che l’amico antiquario mi mostra

un netsuke stranissimo, mai visto : una conchiglia di bronzo traforato.

Mi piace subito.

E subito ricordo che alla mostra “Netsuke. Sculture in palmo di mano”

della Collezione Lanfranchi al Museo Poldi Pezzoli, mentre tutti i visitatori

incantati dalle parole dell’impagabile Asnaghi ammiravano il cacciatore di topi

e la pescatrice di aliotidi – io rimanevo tutto solo davanti ad una minuscola

conchiglia di bronzo elegantemente traforata.

Insolita, misteriosa, elegante e riservata.

Ed ora eccola qui, dopo quasi due anni, eccola qui la stessa conchiglia.

No, non può essere la stessa. Infatti è molto simile e molto diversa.

Soprattutto questa è accessibile. Non so quanto costa, non so se possiedo

quella cifra, ma so che posso acquistarla. E se posso devo.

E’ già mia.. ma non la acquisto.

Trascorro invece giorni e giorni a cercare testi introvabili. Riesco persino

ad ottenere dalla Direzione del Museo Poldi Pezzoli di potere a lungo studiare

in guanti di cotone bianchi il prezioso netsuke della loro collezione.

Ed una sera a Venezia, a  cena nella nostra trattoria d’elezione, Giovanna

posa sulla tovaglia un sacchettino di tela. Dentro c’è la conchiglia.

Anzi, le conchiglie.

“Le” conchiglie perché, aggrappata sul guscio della più grande, abbarbicata,

diventata una cosa sola con l’altra, c’è una minuscola conchiglietta ovoidale.

E’ della piccolina che vorremmo sapere il nome e la mostriamo alla signora

Ada, che arriva dalla cucina commossa della nostra commozione.

Prende in mano le conchiglie con religiosa delicatezza, guarda la piccolina

e dice sicura:   “Xè un bovo’eto!”

Poi la riguarda e si corregge :  “No, ansi, xè un caragòl….. ‘na caragò’a  fèmena”.

Una conchiglietta femmina appassionatamente avvinta ad un’altra conchiglia

che, a questo punto, non può che essere una conchiglia maschio.

Una coppia di innamorati. Lei e lui. Noi.

Nel netsuke del Poldi Pezzoli, sopra la conchiglia grande, la conchiglietta non c’è.

Non c’é e non c’è mai stata perché, studiata a lungo ed ingrandita al massimo,

non si vede nessuna lacuna.

Solo qui c’è. Perché questa è la “conchiglia Giovanna” e per me, per noi,

rappresenta proprio l’inscindibile inestricabile rapporto che da sempre

e per sempre ci lega.

“Due che diventano uno”.

48 anni fa l’anellino metallico che unisce il tappo di gomma del lavello

alla catenella che serve per estrarlo – proprio quel cerchietto metallico

fatto di una semplice spirale, le stesse spirali che disegnano la grande

conchiglia stilizzata come piccoli vortici marini – diventò

il nostro anello di fidanzamento.

Due se, infilato su un dito, lo guardi da un lato.

Uno se lo guardi dall’altro lato.

Due che diventa uno. Due esseri innamorati che vogliono vivere insieme : uno.

5 anni più tardi un raffinato gioielliere di Milano si sentì chiedere di realizzare

la stessa semplicissima forma dell’anellino metallico in oro bianco.

Pochi giorni dopo Monsignor Paolino Spreafico,

titolare della splendidissima Cappella Portinari in sant’Eustorgio,

si vide presentare per la benedizione

queste due insolite poverissime vere nuziali.

Dal lavello di cucina alla gloria degli altari.

Due che diventano uno.

Proprio come questa conchiglia. Due che diventano uno.

Adesso è chiaro di chi questo straordinario netsuke è il ritratto.

2 Responses to “Love-story. Kyubei’s sentokudo clam.”

  1. Fabio Gherardelli says:

    Leggendo LOVE STORY mi è venuta in mente la splendida poesia di Kahlil Gibran SUL MATRIMONIO:

    “Allora Almitra di nuovo parlò e disse: Che cos’è il Matrimonio, maestro?
    E lui rispose dicendo:
    Voi siete nati insieme e insieme starete per sempre.
    Sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni.
    E insieme nella silenziosa memoria di dio.
    Ma vi sia spazio nella vostra unione,
    E tra voi danzino i venti dei cieli.
    Amatevi l’un l’altro, ma non fatene una prigione d’amore:
    Piuttosto vi sia un moto di mare tra le sponde delle vostre anime.
    Riempitevi l’un l’altro le coppe, ma non bevete da un’unica coppa.
    Datevi sostentamento reciproco, ma non mangiate dello stesso pane.
    Cantate e danzate insieme e state allegri, ma ognuno di voi sia solo,
    Come sole sono le corde del liuto, benché vibrino di musica uguale.
    Donatevi il cuore, ma l’uno non sia di rifugio all’altro,
    Poiché solo la mano della vita può contenere i vostri cuori.
    E siate uniti, ma non troppo vicini;
    Le colonne del tempio si ergono distanti,
    E la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro”.

    Chapeau!!!!!!!!!!!

  2. Franco bellino says:

    Se il Fabio che scrive il suo bellissimo commento qui sopra fosse uno psicoterapeuta, dovrei ammettere che ha colto perfettamente nel segno la natura della nostra vita di coppia. Senza sapere nulla di noi, ha capito tutto.
    Giovanna legge le parole che Fabio fa dire a Gibran e dice stupefatta : “Ma questi siamo noi!”.
    Preferisco non approfondire : preferisco non sapere se siamo noi perché proprio come suggerisce Gibran noi due viviamo, o invece perché proprio questo è il nostro problema.

    Non so che cosa abbia guidato Fabio in questa sua fulminea diagnosi precisa come il taglio di un bisturi, quando è preciso.
    Lo hanno guidato forse alcuni termini della mia descrizione del netsuke delle conchiglie ? Forse le parole “… aggrappata sul guscio della più grande, abbarbicata, diventata una cosa sola con l’altra, c’è una minuscola conchiglia” ?
    “Aggrappata.. abbarbicata” e più oltre : “… l’inscindibile inestricabile rapporto che da sempre e per sempre ci lega”.

    Inestricabile.
    Ecco questa è la chiave che mi spiega a me stesso.
    “Inestricabile” è una parola che credo di non avere mai usato in vita mia.
    Però c’è in un verso di una delle poesie più emozionanti che abbia mai letto.
    Il poeta è Li-Yu : quasi sconosciuto poeta cinese che forse, senza che io fino a pochi istanti fa nemmeno me ne rendessi conto,
    ha inciso (un altro bisturi!) nella formazione sempre in progress della mia personalità.
    Li-Yu (937-978) era un principe, ma fu presto esautorato e privato dei piaceri e degli agi nei quali aveva vissuto.
    Aveva tutto e tutto dovette lasciare e proprio questo strazio riesce ad esprimere in poche parole
    che racchiudono tutta la malinconia dell’autunno e della fine di un amore.

    Silenziosamente
    da solo
    salgo sulla Torre di Ponente.
    La luna
    è come un uncino.
    Nel cortile profondo
    un platano solitario
    imprigiona
    la purezza dell’autunno.

    Indivisibile
    inestricabile
    è lo strazio degli addii
    ed una strana sensazione
    lascia nel cuore.

    (sull’aria “La gioia di rivedersi”)

    Solo il principe, solo il platano.
    Lo strazio degli addii composto e cantato sull’aria “La gioia di rivedersi”.
    C’è in questo certamente non casuale contrasto, in queste poche distillate parole
    (quanto di Li-Yu e quanto dei diversi successivi traduttori, non so)
    una sintesi stellare della gioia di ritrovarsi, dello strazio di perdersi e del pensarli entrambi.

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